È quanto emerge dalla sentenza 22 gennaio 2015 n. 2852 della Corte di Cassazione.
Un legale rappresentante di società è stato condannato dalla Corte d’appello di Milano per non aver versato, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta, le ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore alla soglia prevista dall’articolo 10bis del D.Lgs. n. 74/2000 (50mila euro per ciascun periodo d’imposta). Di qui il ricorso per cassazione, che si è concluso però con nulla di fatto.
Contrariamente agli assunti della difesa, i supremi giudici hanno ritenuto che il reato si fosse consumato quando l’imputato era ancora legale rappresentante dell’azienda, successivamente dichiarata fallita.
Quanto, poi, al motivo di ricorso riguardante l’applicazione delle pene accessorie, i giudici di Piazza Cavour hanno affermato che “è legittima l’applicazione d’ufficio, da parte del giudice d’appello, delle pene accessorie non applicate da quello di primo grado, ancorché la cognizione della specifica questione non sia stata devoluta con l’impugnazione del pubblico ministero”. La sentenza impugnata, pertanto, non è incorsa “in trasgressione del divieto di reformatio in peius”, come invece lamentato dal ricorrente.
In conclusione, la Suprema Corte ha reso definitivo il verdetto di colpevolezza pronunciato dal giudice di secondo grado, condannando l’imprenditore al pagamento delle spese di processuali.
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