Il caso. Una società ha ottenuto l’annullamento di una cartella esattoriale (emessa ex art. 36 bis D.P.R. 600/73) con cui l’Ufficio finanziario pretendeva anche il pagamento di un credito IVA ricevuto in sede di conferimento di ramo d’azienda.
Secondo la CTP meneghina, l’operazione di conferimento di ramo d’azienda è fattispecie assimilabile a una cessione di ramo d’azienda il che – in linea con la giurisprudenza della Suprema Corte – “comporta per legge la cessione dei crediti relativi all’esercizio di essa, ivi compresi i crediti d’imposta vantati dal cedente nei confronti dell’erario. Ne consegue che, per effetto della cessione, il cedente medesimo è privo di legittimazione a domandare all’erario dell’IVA pagata in eccedenza” (cfr. Cass. n. 6578/08; conf. Cass. n. 8644/09).
È quindi lecito ritenere che il cedente perda ogni legittimazione in ordine al credito d’imposta, che così entra nella piena disponibilità del cessionario, il quale può utilizzarlo anche in compensazione con propri debiti d’imposta.
Secondo l’Ufficio resistente, invece, il credito IVA trasferito con il conferimento non sarebbe utilizzabile in compensazione, potendo essere solamente richiesto a rimborso; la compensazione non sarebbe possibile per ordini di motivi: – perché la essa è limitata ai soli casi previsti dalla legge, tra i quali non rientra la fattispecie; – perché solamente con la procedura di rimborso l’Amministrazione avrebbe la possibilità di controllare la spettanza effettiva dell’eccedenza d’imposta.
Ebbene, il collegio meneghino di primo grado non ha ritenuto di condividere la tesi prospettata dall’Agenzia delle Entrate.
Il Fisco paga le spese. Ne è derivato l’accoglimento del ricorso della società, con condanna dell’Ufficio finanziario alla rifusione delle spese processuali, liquidate in duemila euro, oltre eventuali oneri fiscali e previdenziali.
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