Il GUP presso il Tribunale di Chieti ha dichiarato il non luogo a procedere nei confronti di un amministratore di società, imputato del reato di truffa aggravata per avere dichiarato con il modello D.M. 10 assegni familiari da corrispondere ai dipendenti, ma in realtà mai versati. Gli indennizzi fittizi sono però stati utilizzati per compensare debiti contributivi, il che ha consentito alla società di non pagare quanto dovuto all’INPS.
Nel corso dell’udienza preliminare il giudice ha riqualificato il reato sussumendolo nella fattispecie d’indebita compensazione, con la conseguenza che, sulla base del rinvio contenuto dall’art. 10-quater ai limiti di cui all’art. 10-bis del D.Lgs. n. 74 del 2000, non essendo stata integrata la soglia di punibilità di 50mila euro, il fatto è apparso privo di rilevanza penale, dunque non previsto dalla legge come reato.
Da qui il ricorso per cassazione della Procura della Repubblica che ha lamentato la violazione e falsa applicazione della legge penale laddove il GUP ha escluso la ricorrenza del reato di truffa ex art. 640, comma 2, C.P.
La Suprema Corte ha ritenuto la doglianza fondata.
Gli ermellini hanno negato la ricorrenza nella specie del reato d’indebita compensazione perché, ai fini della fattispecie prevista dall’articolo 10-quater del D.Lgs. n. 74/2000, è necessario che l’indebita compensazione avvenga con l’utilizzo del modello F24. È pertanto da escludere la possibilità di contestare questo delitto per altre tipologie di compensazioni attuate fuori dall’articolo 17 del D.Lgs. n. 241/1997.
La S.C. ha dunque ritenuto fondata la tesi della Procura in quanto è già stato chiarito che integra il delitto di truffa la condotta del datore di lavoro che, per mezzo dell’artificio costituito dalla fittizia esposizione di somme dichiarate come corrisposte al lavoratore, induce in errore l’istituto previdenziale sul diritto al conguaglio di dette somme, invero mai corrisposte, realizzando così un ingiusto profitto e non già una semplice evasione contributiva.
Conseguentemente, quando il datore di lavoro non si limiti a esporre dati e notizie false in sede di denunce obbligatorie, ma dichiari falsamente di avere corrisposto a un lavoratore dipendente un’indennità di disoccupazione, di maternità, assegni familiari o altra indennità a carico dell’ente previdenziale, così conseguendo l’ingiusto profitto di conguagliare il relativo importo con i contributi dovuti all’INPS, realizza il reato di truffa e non quelli contemplati dagli articoli 37 L. n. 689/1981 e 10 quater D.Lgs. n 74 del 2000.
In conclusione la S.C. ha annullato l’assoluzione pronunciata dal giudice dell’udienza preliminare, rinviando al Tribunale di Chieti.
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