È il principio di diritto ribadito dalla Suprema Corte con la sentenza 25 settembre 2014 n. 39460.
La Terza Sezione Penale del Palazzaccio ha respinto il ricorso di un soggetto indagato per il reato di dichiarazione infedele e che per tale motivo ha subito il sequestro, finalizzato alla confisca per equivalente, di numerosi beni (auto, conti correnti e immobili), alcuni dei quali intestati a madre e fratello.
Disattendendo le tesi della difesa, la S.C. afferma che le presunzioni legali previste dalle norme tributarie non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente a elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa (cfr. Cass. n. 7/2000 e n. 36710/2008).
È stato affermato, tuttavia, il valore indiziario delle predette presunzioni (oppure dei dati di fatto che le sottendono) ragion per cui – si legge in sentenza -“ben può essere fondata su di esse l’applicazione di una misura cautelare reale”. È noto infatti, in materia di misure cautelari reali, “che, ai fini della applicazione della misura, non occorre un compendio indiziario che si configuri come grave ex art. 273 c.p.p., essendo sufficiente l’esistenza del fumus del reato secondo la prospettazione della pubblica accusa sulla base della indicazione di dati fattuali che si configurino coerenti con l’ipotesi criminosa”.
Nel caso di specie, dunque, il Tribunale del riesame avrebbe benissimo potuto ravvisare “l’indizio di sussistenza” del reato ipotizzato dalle sole presunzioni derivanti dalle movimentazioni bancarie. Ma così non è stato. Infatti il giudice di merito – osserva ancora la Corte – ha fatto ricorso ad altri indici di sussistenza del reato come, ad esempio, le dichiarazioni rese dai rappresentanti di alcune società che avevano avuto rapporti commerciali con l’impresa dell’indagato (secondo i quali quest’ultimo aveva chiesto loro di rilasciare alla madre gli assegni riferibili ad alcune transazioni) o, ancora, la palese discordanza tra i modesti redditi dichiarati e il tenore di vita, come evincibile dall’elenco di beni di proprietà, incompatibile con le disponibilità finanziarie dichiarate al Fisco.
Al ricorrente, insomma, non resta che pagare le spese processuali.
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