In concreto, l’Amministrazione Finanziaria utilizza gli studi di settore per verificare la congruità e la coerenza dei contribuenti soggetti a tale tipologia di accertamento, ovvero per appurare se i compensi dichiarati (o i ricavi) risultino uguali o superiori a quelli stimati dagli studi stessi; per effetto dell’art. 10, co. 4, lett. a) della Legge 8 maggio 1998 n. 146, sono soggetti agli studi di settore i contribuenti che hanno dichiarato ricavi o compensi per un ammontare non superiore al limite stabilito per ciascuno studio di settore dal relativo decreto di approvazione del ministro dell’Economia e delle Finanze, limite che non può, comunque, essere superiore a 7,5 milioni di euro.
Presunzioni semplici o qualificate? Secondo l’orientamento proprio dell’Amministrazione Finanziaria, la determinazione del reddito e dell’Iva mediante lo strumento degli studi di settore rientra nell’ambito delle presunzioni gravi, precise e concordanti che, nei confronti delle categorie di contribuenti comprese nel relativo campo di applicazione, possono condurre a configurare una base imponibile diversa da quella dichiarata anche a prescindere dalla previa ispezione della contabilità, configurando, pertanto, un’autonoma tecnica di accertamento e non già semplici elementi di supporto della pretesa tributaria, alla stregua di presunzioni di altra natura.
Tale impostazione è stata progressivamente superata dalla giurisprudenza, prima di merito, poi di legittimità: sono note le quattro sentenze delle Sezioni unite della Cassazione (nn. 26635, 26636, 26637, 26638 del 10 dicembre 2009) che, nell’occuparsi specificatamente del caso di un contribuente sottoposto a parametri, estendono le stesse conclusioni agli studi di settore. Per la Suprema Corte gli studi di settore, pur costituendo uno strumento più raffinato dei parametri, in quanto la loro elaborazione prevede peraltro una diretta collaborazione delle categorie interessate, rimangono comunque il frutto di elaborazioni statistiche, di natura probabilistica che, per quanto seriamente approssimate, sono inquadrabili nell’ambito delle “presunzioni semplici”.
Più in dettaglio, i Supremi Giudici hanno affermato il seguente principio: “La procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sé considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento”.
In altre occasioni la medesima Corte ha affermato il principio per cui lo studio di settore, per assurgere a prova, deve essere supportato da ulteriori elementi, come ad esempio l’abnormità e l’irragionevolezza dello scostamento e deve essere preceduto dal contraddittorio con il contribuente, pena la nullità dell’atto di accertamento. Secondo questa lettura, è possibile affermare che l’onere della prova, anche nell’accertamento da studi di settore, è sostanzialmente a carico dell’Amministrazione fiscale.
La difesa del contribuente. Nelle citate sentenze, le SS.UU. affermano, altresì che “il contribuente ha, nel giudizio relativo all’impugnazione dell’atto di accertamento, la più ampia facoltà di prova, anche a mezzo di presunzioni semplici, ed il giudice può liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, che deve essere dimostrata dall’ente impositore, quanto la controprova sul punto offerta dal contribuente”.
In concreto, per quanto affermato dalla Corte, il contribuente ha quindi la possibilità di provare in giudizio, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustifichino l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standard o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo in contestazione.
In relazione al contraddittorio posto in essere precedentemente all’emissione dell’atto impositivo, la Cassazione ha ulteriormente affermato che “l’esito del contraddittorio non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente, che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte” (cfr. Cassazione, SS.UU. 26635/2009 e 11633/2013).
La rilevanza penale dello studio di settore. Il co. 6 dell’art. 10 della Legge n. 146/1998 dispone che i maggiori ricavi, conseguenti all’applicazione degli accertamenti effettuati in base agli studi stessi, ovvero dichiarati per effetto dell’adeguamento del contribuente ai medesimi, “non rilevano ai fini dell’obbligo della trasmissione della notizia di reato a sensi dell’art. 331 c.p.p.”; gli uffici impositori non sono, di conseguenza, obbligati al deposito della denuncia penale, secondo le forme del codice di rito.
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