È il chiarimento contenuto nella sentenza n. 50308/14, pubblicata ieri, dalla Terza Sezione Penale della Cassazione.
La S.C. ha annullato con rinvio la condanna inflitta dalla Corte d’appello di Genova a un soggetto accusato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 D.Lgs. n. 74/2000) nonostante la sua adesione alla procedura prevista dall’articolo 13-bis del D.L. n. 78 del 2009 (L. n. 102/2009).
Nelle articolate motivazioni la Corte precisa che possono avvalersi del c.d. “scudo fiscale” anche gli amministratori di società di capitali; aggiunge che i soggetti che hanno aderito al condono non sono punibili per una serie di reati, compendiabili in due macro-categorie. La prima concerne i delitti tributari di dichiarazione fraudolenta (artt. 2 e 3 del D.Lgs. n. 74/2000), dichiarazione infedele (art. 4), omessa dichiarazione (art. 5) e occultamento o distruzione di scritture contabili (art. 10), mentre la seconda macro-categoria concerne le condotte di falso punite dal codice penale ossia: a) falsità materiale commessa da privato (art. 482 c.p.); b) falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico (art. 483 c.p.); c) falsità in registri e notificazioni (art. 484 c.p.); d) falsità in scrittura privata (art. 485 c.p.); e) uso di atto falso (art. 489 c.p.); f) soppressione, distruzione o occultamento di atti veri (art. 490 c.p.); g) falsità riguardanti documenti informatici, pubblici i privati, aventi efficacia probatoria (art. 491 bis c.p.)] e le false comunicazioni sociali di cui agli articoli 2621 e 2622 c.c.
Solo per i reati codicistici, però, deve sussistere un rapporto di connessione teleologica o consequenziale con i reati tributari: l’esclusione della punibilità opera solo qualora i primi siano stati commessi per eseguire o occultare i secondi, oppure per conseguirne il profitto e siano riferiti alla stessa pendenza o situazione tributaria. In sostanza, il contribuente dovrà dimostrare che i delitti di falso o i reati societari sono stati funzionali alla commissione dei reati tributari in quanto prodromici oppure volti a mantenere i vantaggi o a nascondere i reati tributari.
Pertanto “è evidente – si legge in sentenza – che il rientro dei capitali detenuti all’estero non implica, necessariamente, una pregressa forma di evasione. Ben può verificarsi, invero, che le attività detenute oltre confine siano frutto non solo di redditi ivi prodotti e sottratti a tassazione in Italia ma anche di redditi prodotti in Italia, non assoggettati completamente ad imposizione (…) e trasferiti all’estero anche in violazione della normativa antiriciclaggio, come avvenuto in questo caso”.
E allora, per i supremi giudici, è poco convincente la soluzione offerta dal giudice dell’appello secondo cui i reati per cui opererebbe la causa di non punibilità sono solamente quelli commessi “dopo l’esportazione irregolare dei capitali all’estero aventi a oggetto la mancata dichiarazione a fini fiscali delle attività possedute all’estero nel periodo intercorrente tra l’esportazione e l’emissione”.
La parola è quindi tornata alla Corte d’appello di Genova che, in diversa composizione, dovrà riesaminare il caso portato all’attenzione dei supremi giudici.
http://www.fiscal-focus.info/giurisprudenza/scudo-fiscale-ad-ampio-raggio,3,25079
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