No la risarcimento. Gli Ermellini hanno reso definitiva la sentenza della Corte d’appello di Bologna che ha respinto la domanda di risarcimento danni avanzata da una società contro il proprio (ex) consulente del lavoro.
La Corte territoriale bolognese ha riformato la sentenza di primo grado sul punto relativo all’accertamento della responsabilità professionale, non avendone ravvisato gli estremi in capo al consulente, poiché la tardiva allegazione della clausola di riserva alla domanda di condono previdenziale era stata il frutto di una strategia concordata con la cliente o comunque di una valutazione, quand’anche non consensuale, corretta, in ragione di quello che all’epoca dei fatti era l’indirizzo predominante della giurisprudenza. In questo quadro hanno dunque perso rilevanza le dichiarazioni confessorie del professionista relative alla dimenticanza di presentare la domanda di riserva.
Investiti dell’esame della controversia, in forza del ricorso prodotto dalla società, i giudici del Palazzaccio ritengono che la decisione della Corte d’appello sia priva dei lamentati vizi. Infatti la sentenza impugnata si è snodata tramite percorsi argomentativi autonomi, ciascuno dei quali logicamente e giuridicamente idoneo a sorreggere la decisione: da una parte, l’esclusione di qualsivoglia responsabilità del professionista per avere agito in forza di una “scelta consensuale” adottata con il cliente; dall’altra, il giudizio relativo all’irrilevanza delle dichiarazioni confessorie rese dal consulente per avere, il medesimo, comunque agito (fosse anche su propria iniziativa) conformemente all’orientamento giurisprudenziale all’epoca prevalente, che deponeva nel senso di considerare l’allegazione contestuale della riserva di ripetizione alla domanda di condono previdenziale “tamquam non esset”.
La Suprema Corte, in conclusione, motiva il giudizio di infondatezza del ricorso della società cliente nel senso che la stessa “ha indirizzato le proprie doglianze contro la valutazione del giudice di merito d’irrilevanza della confessione, mancando però di considerare la complessiva ratio decidendi, che, come visto, si sofferma – per escludere ogni addebito in capo al consulente del lavoro- sia sulla consensualità della scelta operativa, ma anche, in ogni caso, sulla piena conformità della condotta del professionista rispetto al ritenuto orientamento giurisprudenziale prevalente, di per sé ritenuta esimente al di là della dimenticanza confessata”.
Al cliente non resta che pagare le spese del giudizio che la Terza Sezione Civile ha liquidato in 7.200 euro, in favore di ciascuno delle parti controcorrenti (professionista e compagnia assicuratrice).
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