La sentenza. È quanto si ricava dalla sentenza 3 aprile 2014 n. 15176 della Corte di Cassazione – Terza Sezione Penale.
Assoluzione in Tribunale. I giudici di Milano hanno mandato assolto un imprenditore imputato del reato di cui all’articolo 10 ter del D.Lgs. n. 74/2000, ritenendo, sulla base degli esiti dell’istruttoria dibattimentale, non configurabile l’elemento soggettivo del reato (o quantomeno vi era la presenza di un ragionevole dubbio sulla sussistenza del dolo), sul rilievo dell’esistenza di un’obiettiva situazione di illiquidità della società di cui l’imputato era legale rappresentante, dovuta peraltro ai sistematici e gravissimi ritardi nei pagamenti da parte dei clienti.
Nel caso di specie, per il Tribunale di Milano, la crisi di acuta illiquidità aveva comportato un’effettiva mancanza della volontà dell’omissione in considerazione di una sorta di causa di impossibilità relativa, da valutarsi in relazione a quanto umanamente esigibile dal soggetto su cui incombe il dovere di adempiere.
Verdetto da confermare. Ebbene, gli Ermellini rigettano il ricorso della Procura della Repubblica, confermando, per l’effetto, la sentenza di assoluzione. Da un lato, l’imputato ha assolto gli oneri di allegazione e di prova per quanto attiene alla dedotta crisi di liquidità, dall’altro, lo scrutinio compiuto dal Tribunale è risultato ineccepibile.
Colpa dei clienti (e delle banche). E infatti il giudice del merito, con logica e adeguata motivazione, come tale insindacabile in sede di legittimità (v. Cass. n. 5467/13), ha ritenuto che il comportamento dell’imputato fosse caratterizzato dall’assenza di profili di rimproverabilità perché – a fronte di un obbligo tributario che, all’epoca dei fatti, sorgeva dalla semplice emissione della fattura (a prescindere quindi dall’effettiva riscossione del credito per la prestazione eseguita) e a fronte dei sistematici, gravissimi ritardi dei fornitori nel pagamento delle fatture stesse – il ricorso massiccio al credito bancario e, per certi versi, anche a causa dell’ulteriore conseguente aggravamento degli oneri passivi determinati dalle percentuali trattenute dalle banche per lo sconto delle fatture, comportò che l’imputato dovette fronteggiare una gravissima carenza di liquidità, certamente non ascrivibile a sua colpa, ma derivante dalla micidiale combinazione dei due fattore indicati pocanzi, entrambi non dipendenti da lui. Di conseguenza, l’imputato fu costretto a non pagare il debito erariale da un comportamento omissivo e dilatorio di soggetti che avrebbero dovuto saldare fatture per forniture e prestazioni ricevute per ingenti importi.
La prova liberatoria. Insomma, a giudizio degli Ermellini, l’imprenditore è riuscito a dimostrare che non gli è stato altrimenti possibile reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, atte a consentirgli di recuperare la necessaria liquidità, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili.
Solo a fronte del raggiungimento di tale prova, infatti, i giudici con l’Ermellino ritengono che possa configurarsi l’assenza di dolo con riguardo al reato di omesso versamento dell’IVA (da ultimo, Cass. sentenze n. 2614/14 e n. 10813/14). Il ricorso della Procura Generale è stato pertanto respinto.
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