Ad avviso dei giudici del Palazzaccio, l’indagato ha lamentato, a buon diritto, la mancanza di un’idonea motivazione circa la permanenza delle esigenze cautelari.
L’errore del Tribunale. In particolare il Tribunale non ha logicamente e adeguatamente motivato sul perché abbia ritenuto “concreto e attuale” il pericolo di recidivanza, “mentre – evidenziano gli Ermellini – l’unico dato concreto sarebbe invece costituito dalla constatata, risalente e prolungata inerzia criminale durante tutto il lungo periodo nel quale l’indagato, dopo l’intervento della polizia giudiziaria e sino all’emissione della misura cautelare, ha goduto della piena libertà”.
Come giustamente rilevato dalla difesa, il giudice del merito ha cercato di surrogare la necessaria concretezza del pericolo di recidivanza con il fatto che “sarebbe profilabile una nuova commissione di reati della stessa specie magari con l’ausilio di taluni degli individui (rimasti esenti da provvedimenti di coercizione personale) dimostratisi nel corso delle indagini in stretti legami di collaborazione e cointeressenza”; ma ciò ha significato, a giudizio degli Ermellini, profilare un’eventualità astratta e teorica a discapito dell’accertamento della presenza “di un pericolo attuale e concreto idoneo ad incidere sulla fondamentale libertà costituzionale tutelata. Al contrario, il fatto stesso che la misura cautelare sia stata disposta dopo ben due anni dalle perquisizioni e dall’accertamento del novembre 2011, e quindi con riferimento a condotte risalenti nel tempo, richiedeva una motivazione sull’attualità e concretezza del pericolo di recidivanza particolarmente specifica e approfondita”.
Rinvio per nuovo esame. Insomma, la parola è tornata al Tribunale di Brescia che ora dovrà riesaminare la richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare degli arresti domiciliari avanzata dell’indagato facendo buongoverno dei principi enunciati dai giudici di vertice.
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