È legittimo il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca, per l’omessa dichiarazione IVA in Italia, dei beni della società “estero-vestita” e di quelli del suo amministratore. Il fenomeno della “estero-vestizione” non rientra nell’abuso del diritto e quindi non opera la depenalizzazione. È quanto emerge dalla sentenza n. 2407/18 della Corte di Cassazione, che esamina la riforma sull’abuso del diritto, interpretando l’articolo 10-bis dello Statuto del contribuente.
Nella fattispecie, la Suprema Corte ha reputato corretta la decisione del Tribunale del riesame che ha confermato il sequestro preventivo disposto dal Gip sui beni di una società avente residenza fiscale all’estero (Germania) ma operante effettivamente in territorio nazionale e su quelli del suo amministratore unico.
Il Tribunale ha ritenuto sussistente il fumus commissi delicti del reato di omessa dichiarazione, in ragione della cosiddetta “estero-vestizione” della società.
Il Tribunale ha appurato che la società in questione, per gli anni in contestazione, aveva svolto nel territorio italiano la gran parte della sua attività. Precisamente a) in Italia si era realizzata la quasi totalità del fatturato relativo alle cessioni di legname; b) in Italia venivano stipulati i contratti con i clienti italiani; c) in Italia erano stati accesi i rapporti di c/c sia della società che dell’amministratore, conti su cui affluivano gli incassi delle cessioni di legname; d) in Italia esisteva il centro direzionale dell’attività (come risultante dalla circostanza che in Italia la GdF aveva reperito tutta la documentazione contabile, bancaria e commerciale).
Il Tribunale, dunque, ha avuto elementi sufficienti per ritenere sussistente la estero-vestizione della società e cioè che detta società avesse stabile organizzazione in Italia, con conseguente configurabilità del fumus del reato di cui all’articolo 5 del D.lgs. n. 74 del 2000.
Ebbene, la Suprema Corte ha ricordato che “l’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale IVA da parte di società avente residenza fiscale all’estero sussiste se questa ha stabile organizzazione in Italia.”
La stabile organizzazione in Italia, precisa la S.C., si verifica quando si svolgono in territorio nazionale la gestione amministrativa e la programmazione di tutti gli atti necessari affinché sia raggiunto il fine sociale e perciò essa “deve essere desunta da elementi fattuali rilevanti ai fini dell’accertamento della presenza in Italia della sede delle decisioni strategiche, industriali e finanziarie (c.d. alta amministrazione), nonché di quelle più rilevanti dell’amministrazione della società. In altri termini della conduzione in Italia dell’attività costituente l’oggetto sociale della medesima. Tale accertamento è stato compiuto dal Tribunale con una motivazione immune da censure e da vizi logici e giuridici.”
La Suprema Corte, poi, esclude l’applicabilità, al caso in esame, della disciplina in materia di abuso del diritto/elusione fiscale, oggetto del recente intervento normativo attuato con il D.lgs. 128 del 2015, che, a determinate condizioni, ha depenalizzato quelle condotte che prima, per effetto del formarsi di una giurisprudenza in tal senso, vi si erano state fatte rientrare.
La difesa ha invocato il disposto dell’articolo 10-bis, L.212 del 2000, con riferimento al comma 13. Ad avviso degli Ermellini, però, il Tribunale del riesame fa una giusta osservazione laddove evidenzia come secondo il comma 12 dell’art. 10-bis cit. le operazioni abusive possono configurarsi solo quando non possano contestarsi violazioni di specifiche disposizioni tributarie, nelle quali rientrano anche le norme penali in materia tributaria. Tale osservazione porta a escludere la fondatezza della tesi difensiva secondo cui nel caso di specie può parlarsi “semplicemente” di abuso del diritto non codificato o di elusione fiscale, trattandosi al contrario di una vera e propria esterovestizione, con conseguente violazione della norma tributaria penale di cui all’art. 5 del D.lgs. n. 74 del 2000.
La giurisprudenza di legittimità, in tema di violazioni finanziarie, ha già sostenuto che l’istituto dell’abuso del diritto di cui all’articolo 10-bis L. n. 212/2000, che, per effetto della modifica introdotta dall’art. 1 del D.Lgs. n. 128/2015, esclude ormai la rilevanza penale delle condotte a esso riconducibili, “ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi” (Cass. Sez. 3, pen. n. 40272/2015).
Pertanto, nel caso di specie, secondo gli Ermellini, deve escludersi la sussistenza di un mero abuso del diritto penalmente irrilevante, atteso che l’indagato, oltre ad aver conseguito un vantaggio fiscale indebito, ha violato direttamente la norma penal-tributaria. La fattispecie contestata, “è infatti, quella prevista dall’art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000, che sanziona di per sé la omissione della presentazione della dichiarazione, anche a prescindere dalla produzione di un effettivo danno economico per l’A.F.”
In conclusione il ricorso è stato respinto e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
wordpress theme by initheme.com