Da quest’anno, come noto, non è più obbligatoria la presentazione dell’interpello probatorio per poter disapplicare la disciplina sulle società di comodo.
Al contribuente è quindi lasciata la possibilità di poter “auto-valutare” la sussistenza delle condizioni per la disapplicazione della disciplina delle società non operative e in perdita sistematica.
Ma quando, effettivamente, possiamo ritenere di poter “sfuggire” da questa penalizzante disciplina? L’affitto d’azienda – Uno dei casi più rilevanti riguarda l’azienda affittata a terzi. Colui che affitta l’azienda mantiene, infatti, nel proprio bilancio, i beni costituenti la stessa, i quali quindi, rientrano nel calcolo del test di operatività, con effetti che potrebbero essere estremamente penalizzanti, soprattutto laddove il canone di affitto concordato non sia particolarmente elevato.
In questi casi, sicuramente, la prima verifica da effettuare consiste nell’individuare quelle che sono le cause di esclusione e di disapplicazione automatica applicabili.
Si ricorda, a tal proposito, che, con riferimento al test di operatività, sia le cause di esclusione che di disapplicazione devono essere verificate nell’esercizio di riferimento (ad esempio, 2015), e, con specifico riferimento alle cause di disapplicazione automatica, queste ultime devono essere tenute nettamente distinte da quelle previste per le società in perdita sistematica.
Pertanto, laddove la società in commento non superi il test di operatività, l’eventuale Mol positivo, ad esempio, non ha alcun rilievo ai fini della disapplicazione. Interpello: presentarlo o non presentarlo? – Laddove non siano rinvenibili cause di esclusione o di disapplicazione automatica, le strade da percorrere sono tre:
– presentare istanza di interpello probatorio;
– non presentare istanza e disapplicare comunque la disciplina, dopo aver “autovalutato” la presenza di oggettive condizioni per la disapplicazione;
– non presentare istanza di interpello e sottostare a tutte le penalizzazioni previste dalla disciplina delle società di comodo.
La seconda soluzione proposta non deve essere sicuramente sottovalutata: non presentare istanza di interpello probatorio e attestare la presenza delle oggettive condizioni per la disapplicazione non può infatti essere considerata una sorta di “auto-esclusione” arbitraria dalla disciplina delle società di comodo.
Ecco il motivo per il quale deve essere attentamente valutata la situazione della società, individuando le argomentazioni da riportare in sede di interpello probatorio, o a fronte di un eventuale, successivo, accertamento. L’affitto d’azienda – La disciplina sulle società di comodo nasce con il principale scopo di contrastare tutte quelle società che gestiscono il patrimonio nell’interesse dei soci, senza esercitare effettiva attività d’impresa.Con l’affitto d’azienda la società perde il possesso dei beni, che passano, appunto, all’affittuario, ragion per cui appare lontana la possibilità, per la società stessa, di gestire i beni nell’esclusivo interesse dei soci.
La contraddittorietà tra la stessa natura del contratto e la ratio della disciplina in commento rappresenta sicuramente uno degli aspetti più rilevanti da tenere in debita considerazione.
Tuttavia l’Agenzia delle Entrate potrebbe contestare l’importo dei canoni di affitto (ritenuti eccessivamente bassi) e far comunque ricadere le società in oggetto nell’alveo della disciplina delle società di comodo.
A tal fine giova richiamare la sentenza della Ctr Lombardia n. 2909 del 16 maggio 2016, la quale ha chiarito che non è possibile far riferimento agli importi risultanti dall’applicazione degli studi di settore, ma eventualmente, è utile confrontare i canoni con i tassi applicabili agli investimenti monetari, al fine di comprendere se la remunerazione è comunque adeguata al capitale investito.
I primi commentatori della richiamata sentenza hanno ritenuto che, effettivamente, un buon parametro, in tal senso, potrebbe essere rappresentato dal documento del CNDCEC del marzo 2016, relativo al congruo canone di affitto di azienda nelle procedure concorsuali.
Ad ogni buon conto, vi potrebbero essere anche delle vicende aziendali atte a giustificare un canone che, seppur non in grado di remunerare il capitale investito sia comunque idoneo a minimizzare le perdite derivanti dalla gestione diretta dell’azienda. In tal senso si è infatti orientata la Ctr Toscana, con la sentenza 800/5/16 del 4 maggio 2016.