La sentenza. È quanto si ricava dalla sentenza 6 maggio 2014 n. 18715 della Corte di Cassazione – Terza Seziona Penale.
Il caso. La Suprema Corte ha respinto il ricorso di un imprenditore pugliese al quale sono stati sequestrati, in relazione all’ipotizzato reato di dichiarazione infedele, beni mobili registrati, immobili, partecipazioni societarie e somme presenti su conti correnti bancari fino alla concorrenza di circa 180 mila euro.
Le osservazioni della S.C. Nelle motivazioni della sentenza in rassegna, i giudici di legittimità ricordano l’orientamento consolidato secondo cui le presunzioni legali previste dalle norme tributarienon possono costituire, di per sé, fonte di prova della commissione del reato, “assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente a elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa, potendo egli giungere anche, eventualmente, a conclusioni diverse” (cfr., tra le altre, Cass. n. 36396 del 2011).
La giurisprudenza di legittimità ha altresì affermato il valore indiziario delle presunzioni legali (oppure dei dati di fatto che le sottendono), con la conseguenza che esse ben possono fondare, come nella specie, una misura cautelare reale, “giacché a tal fine – spiegano i giudici di Piazza Cavour – non occorre un compendio indiziario che si configuri come grave ex art. 273 c.p.p., essendo invece sufficiente l’esistenza del fumus del reato secondo la prospettazione della pubblica accusa sulla base della indicazione di dati fattuali che si configurino coerenti con l’ipotesi criminosa” (cfr. Cass. 7078 del 2013).
Insomma, la Terza Sezione Penale ha ritenuto pienamente legittima l’adozione del sequestro preventivo “per equivalente” a carico dell’imprenditore in questione. Anche perché il giudice di merito non si è sottratto, come sostenuto dall’indagato, al vaglio delle argomentazioni difensive, ritenendolo tuttavia inidonee a incidere sugli elementi indicativi del fumus. Infatti, rileva la S.C., “da un lato, le partite di giro e gli asseriti prelievi per contanti per esigenze personali non sono stati ritenuti suscettibili di riscontro […] e, dall’altro, le operazioni effettuate da un conto all’altro sono state ritenute presentare una valenza neutra nella ricostruzione del reddito in quanto non giustificate contabilmente e finanziariamente. Di talché, in definitiva, anche l’individuazione del profitto, censurata in ricorso, è stata così determinata in relazione al calcolo, ritenuto allo stato fondato, evidentemente effettuato dalla Guardia di Finanza”.
Il ricorrente dovrà ora pagare le spese processuali.
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