Il reato. Il delitto di appropriazione indebita – punibile con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032 – è commesso da chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso. Se il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario, la pena è aumentata e si procede d’ufficio e non a querela della persona offesa. Si procede altresì d’ufficio, se il fatto è commesso con abuso di autorità o di relazioni domestiche, oppure con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione o di ospitalità (art. 61 n. 11 c.p.).
Il caso. Venendo al caso trattato dalla sentenza in argomento, gli Ermellini hanno confermato il verdetto di colpevolezza emesso a carico di un professionista siciliano. L’uomo è stato riconosciuto responsabile del reato di appropriazione indebita aggravata (ex artt. 646, 61, n. 11, c.p.) e per questo condannato dalla Corte d’appello di Messina alla pena di tre mesi di reclusione e 500 euro di multa, oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile.
Osservazioni della S.C. Contrariamente agli assunti della difesa, i giudici del Palazzaccio ritengono che integri il reato in questione il rifiuto di restituire al cliente la documentazione ricevuta, poiché costituisce un comportamento che eccede i limiti del titolo del possesso. Il delitto di appropriazione indebita infatti si consuma “dal momento in cui il possessore ha compiuto un atto di dominio sulla ‘res’, così manifestando l’intenzione di tenerla come propria” (cfr. Cass. n. 22127 del 2013).
La sentenza impugnata, dunque, ha correttamente affermato l’irrilevanza degli eventuali motivi che hanno spinto il ricorrente a non restituire la documentazione, considerato anche quanto accertato in primo grado, ossia “dell’intervenuta interversione del possesso del commercialista che, a fronte della retribuzione mensile (€ 200,00) ricevuta per come convenuto con la (…) srl, era rimasto inadempiente ai propri obblighi”, non avendo neppure provveduto alla presentazione delle dichiarazioni dei redditi. I giudici di merito hanno pertanto individuato la finalità di ingiusto profitto in quella di non rendere evidenti le omissioni che, come danno alla persona offesa, hanno comportato verifiche tributarie e sanzioni.
Condanna alle spese. In conclusione, dal Palazzaccio decidono per il rigetto del ricorso del professionista, al quale non resta che pagare le spese processuali e la somma di mille euro in favore delle Cassa delle ammende.
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