Il caso. La Corte d’appello di Potenza condannava la titolare di un negozio di abbigliamento alla pena di due anni e sei mesi di reclusione per i delitti di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale. Il difensore dell’imputata ha quindi proposto ricorso per cassazione, lamentando, per quanto qui interessa, la contraddittorietà e illogicità della decisione del giudice di merito, atteso che la vendita dei capi di abbigliamento non rinvenuti all’atto dell’inventario era avvenuta a prezzi particolarmente scontati data la loro vetustà e la necessità di realizzare liquidità anche per far fronte alle pretese creditorie.
A detta della difesa, in sostanza, l’elemento soggettivo del reato di bancarotta per distrazione doveva ritenersi assente perché i beni erano stati alienati allo scopo di estinguere i debiti contratti. Risultava infatti provato che con il ricavato di poco più di 1.400 si era fatto fronte al pagamento della tassa sui rifiuti.
La S.C. bacchetta la difesa. Investita dell’esame della controversia la Quinta Sezione Penale del Palazzaccio ha rigettato il ricorso dell’imputata. Ciò perché la difesa non ha colto né ha tentato di confutare gli argomenti ritenuti decisivi dalla Corte territoriale. Ad esempio, nella motivazione della pronuncia gravata, si è evidenziato come la ditta fallita avesse “annotato ricavi (fra il 1999 e il 2000) per circa 190 milioni di lire, a fronte di un decremento di magazzino per quasi 900 milioni, il che avrebbe potuto spiegarsi solo ipotizzando che l’impresa avesse praticato prezzi di vendita addirittura inferiori dell’80% rispetto a quelli di acquisto: tesi che – oltre a non trovare riscontri probatori significativi, ben potendo uno scontrino per importo modesto nascondere piuttosto introiti maggiori – era sconfessata dallo stesso consulente contabile della ditta de qua, secondo cui la valutazione delle rimanenze era comunque fatta sul parametro del valore di acquisto dei beni”.
Del pari la difesa della ricorrente non ha tenuto in alcun conto l’osservazione del giudice di merito in base alla quale “se anche si volesse dar credito all’assunto difensivo, la condotta correlata alla vendita della merce a condizioni di realizzo integrerebbe ugualmente la fattispecie di reato contestata nell’ipotesi della dissipazione, essendosi concretizzata in una serie di operazioni sistematiche, comportamenti la perdita di beni aziendali”.
Non resta che pagare le spese. Alla luce delle considerazioni che precedono, gli Ermellini hanno confermato la sentenza di condanna. All’imputata non resta che pagare le spese del giudizio di legittimità e mille euro in favore della Cassa delle Ammende, essendo stati ravvisati dalla S.C. profili di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità del ricorso poiché riconducibili alla volontà della ricorrente medesima.
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