È il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 40009/14, pubblicata il 26 settembre.
La Quinta Sezione Penale della Suprema Corte ha disatteso, in particolare, il motivo di ricorso con cui i tre imputati (ricorrenti) hanno sostenuto che le condotte di natura fiscale – nella specie emissione di fatture per operazioni inesistenti – non possono costituire anche distrazione ai fini del reato di bancarotta fraudolenta.
A tal proposito in sentenza si legge che, “poiché la procedura concorsuale non deve necessariamente e intenzionalmente essere voluta quale conseguenza della condotta, non sussiste contrasto logico tra compimento di operazioni dolose (nella specie emissione di fatture per operazioni inesistenti), per effetto delle quali sia stato cagionato il fallimento, e interesse alla società poi fallita, stante la diversità concettuale tra l’elemento psicologico delle predette operazioni e il rapporto causale con il fallimento stesso, ben potendo coesistere la mera consapevolezza di quest’ultimo quale possibile esito (anche) della propria condotta, e quindi l’assunzione del relativo rischio, con un soggettivo interesse ad esiti meno infausti.
Il dolo nel reato di bancarotta fraudolenta è generico e non specifico e si realizza anche quando l’agente sia mosso soltanto dal proposito di procurare un profitto, sicché il reato sussiste anche se la condotta incriminata sia stata posta in essere solo allo scopo di realizzare una frode fiscale, risolvendosi pur sempre quest’ultima in un profitto, certamente ingiustificato”.
Nel caso di specie, la responsabilità dei tre ricorrenti, derivante dalla programmazione, partecipazione ed esecuzione di frodi fiscali, è stata penalmente sanzionata quale ipotesi di bancarotta impropria, poiché gli imputati, per effetto di operazioni dolose, hanno determinato il fallimento della società. Gli imputati hanno ammesso la loro consapevole partecipazione alla frode fiscale e il reato contestato ha trovato fondamento nella diretta correlazione causale tra il meccanismo di frode e lo stato di decozione fallimentare della società.
Ebbene, la S.C. ritiene che nella nozione di operazioni dolose di cui all’articolo 223, n. 2 L.fall. rientrano, non soltanto i fatti costituenti reato ma qualsiasi comportamento dei titolari del potere sociale, che si traduca in abuso, in un’infedeltà delle funzioni o nella violazione dei doveri derivanti dalla qualità ricoperta e che determini lo stato di decozione della società.
Di conseguenza, le operazioni dolose vanno ravvisate in qualunque atto di natura patrimoniale, compiuto in violazione dei doveri, con l’intenzione di conseguire, per sé o altri, un profitto a danno dei creditori o della persona giuridica, come nell’ipotesi di una frode fiscale come quella in contestazione. “A tal fine, – afferma la S.C. –, perché possa dirsi integrata la contestata fattispecie, è sufficiente il dolo generico, quale e scienza e volontà della operazione pericolosa per la salute economica e finanziaria della società. In questi termini, tali atti sono certamente operazioni dolose”.
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