Secondo i Supremi giudici, si ha “uso promiscuo” non solo quando i medesimi locali sono utilizzati tanto ai fini abitativi quanto ai fini aziendali o professionali, ma anche quando i locali adibiti ad abitazione e quelli adibiti a opificio o a studio professionale sono distinti, ma adiacenti e tra gli uni e gli altri vi sono porte di comunicazione.
In entrambi i casi, l’accesso degli ispettori dell’Amministrazione finanziaria deve essere autorizzato dal Procuratore della Repubblica ai sensi dell’art. 52, 1° co. del D.P.R. n. 633/1972 (ovvero senza che sia richiesta anche la presenza di gravi indizi di violazioni di norme tributarie, come invece viene stabilito dal 2° co. della medesima disposizione). In assenza di questa autorizzazione, gli atti compiuti sono illegittimi e l’avviso di accertamento è nullo.
Il caso. La Guardia di Finanza aveva constatato un’indebita detrazione IVA conseguente alla registrazione di fatture per operazioni inesistenti; il contribuente ebbe ragione in primo grado sulla preliminare e assorbente considerazione che l’accesso nei locali dell’impresa non era stato autorizzato dal Procuratore; per cui sia l’accesso che gli atti consequenziali, per il principio dell’invalidità derivata, erano da ritenere nulli (ivi compreso l’atto di accertamento che veniva pertanto annullato).
La Commissione Provinciale ritenne provato, in considerazione dei certificati anagrafici prodotti, della planimetria dell’immobile e di uno stralcio di prova testimoniale resa in separato procedimento penale da uno degli agenti accertatori, che l’opificio in questione fosse realmente adibito a uno promiscuo. La tesi venne confermata dal giudice dell’appello.
Il ricorso. Contro la sentenza della Commissione tributaria regionale, l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 52 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. In particolare, nel ricorso, l’ufficio tributario contesta il fatto che la sentenza impugnata non consente di intendere con esattezza cosa la Commissione abbia inteso per “uso promiscuo”; se abbia inteso cioè riferirsi: all’uso tanto industriale quanto abitativo degli stessi locali, ovvero alla semplice contiguità e possibilità di accesso tra locali industriali e locali adibiti ad abitazione. E con riferimento a entrambe le possibilità l’ufficio contesta l’esito del processo per difetto di motivazione.
La tesi della Cassazione. La Suprema Corte decide per l’infondatezza del ricorso: osserva che nel caso esaminato i locali adibiti ad abitazione e quelli commerciali erano distinti ma adiacenti e che tra i due vi erano porte di comunicazione. Per la Cassazione questo è sufficiente per ritenere che vi sia uso promiscuo.
Precisa, in merito, che si ha destinazione a uso promiscuo non solo nell’ipotesi in cui i medesimi ambienti siano contestualmente utilizzati per la vita familiare e per l’attività economica, ma ogni qual volta l’agevole possibilità di comunicazione interna consenta il trasferimento di documenti propri dell’attività nei locali abitativi (viene citata come conforme la sentenza della medesima Corte n. 16570 del 28/07/2011).
In tali casi, afferma la Suprema Corte, “l’autorizzazione all’accesso da parte dell’A.G., in quanto diretta a tutelare l’inviolabilità del domicilio privato, e quindi, indirettamente, lo spazio di libertà del contribuente, rileva alla stregua di condicio sine qua non per la legittimità dell’atto e delle relative conseguenti acquisizioni (per riferimenti, Cass. n. 6903/2011). Giacché il principio di inutilizzabilità della prova illegittimamente acquisita si applica anche in materia tributaria, in considerazione della garanzia difensiva accordata, in generale, dall’art. 24 Cost. (v. Cass. n. 8131/2007; n. 19689/2004)”.
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