Al riguardo, occorre, innanzitutto, rilevare che l’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, del D.P.R. n. 600 del 1973 contiene due distinte presunzioni legali relative, la prima delle quali, concernente gli accrediti sui rapporti finanziari, è individuabile nella proposizione secondo cui “i dati ed elementi attinenti ai rapporti e alle operazioni acquisiti e rilevati … sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine”.
Tale presunzione – applicabile a qualsiasi contribuente (in questo senso, Cass., sentenza 31 gennaio 2017, n. 2432) – impone al contribuente sottoposto ad indagini finanziarie di fornire la dimostrazione che le operazioni di accredito sui propri rapporti finanziari sono state prese in considerazione ai fini della determinazione del reddito soggetto ad imposta o che le stesse non assumono rilevanza a tale fine.
Un primo strumento di difesa per il contribuente è, certamente, rappresentato dalla prova che le movimentazioni oggetto di contestazione sono confluite nella contabilità ufficiale (in questo senso, Cass., sentenza 8 febbraio 2017, n. 3327).
Qualora, invece, le movimentazioni non siano confluite in contabilità, il contribuente può assolvere l’onere probatorio posto a suo carico, fornendo la dimostrazione che detti versamenti non hanno rilevanza ai fini fiscali, in quanto non connessi ad operazioni fiscalmente rilevanti.
È questo il caso, ad esempio, di somme accreditate sul conto corrente, concesse, a titolo di prestito, da parenti e/o amici. È chiaro che, in tali ipotesi, la mera dichiarazione circa l’avvenuta corresponsione del denaro non può essere ritenuta sufficiente a soddisfare l’onere probatorio, se non corroborata da ulteriori elementi, anche documentali; rilievo potrà, tuttavia, essere attribuito, nell’ambito del contraddittorio con gli operatori del Fisco, ad ogni elemento o circostanza, relativi alle ragioni del prestito, alle modalità di utilizzo delle somme di denaro, nonché ai termini di restituzione dello stesso.
Ulteriori utili indicazioni in ordine a giustificazioni che possono essere fornite dal contribuente in relazione a versamenti su propri conti/rapporti finanziari, possono essere tratte dalla richiamata sentenza 22 marzo 2017, n. 7259, con la quale i giudici di legittimità hanno ritenuto illegittimo un accertamento, non avendo i giudici tributari verificato “se i versamenti giustificati dal contribuente come sostanziali giroconti (rispetto alla provvista tratta dal conto presso la BNL o dalla banca MPS – previa deduzione degli importi spesi per le ordinarie esigenze di vita del nucleo familiare)”non fossero con certezza “significativi di un reddito non dichiarato, fermo restando che l’onere della prova liberatoria, per il contribuente, si commisura alla natura ed alla consistenza degli elementi indiziari contrari impiegati dall’Amministrazione”.
Con tale arresto, la Cassazione ha certamente compiuto un notevole passo avanti nella direzione del contribuente, offrendogli la possibilità di utilizzare ulteriori argomentazioni per contrastare le presunzioni da indagini finanziarie.
Tale decisione sembra, in questo senso, porsi in linea di continuità con precedenti interventi nei quali i giudici di legittimità hanno riconosciuto al contribuente la facoltà – nell’ambito del contraddittorio preventivo con gli operatori dell’Amministrazione finanziaria – di assolvere l’onere probatorio posto a suo carico, attraverso argomentazioni di carattere presuntivo (cfr. sentenza 30 novembre 2011, n. 25540).
La seconda presunzione legale relativa, anch’essa contenuta nell’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, del D.P.R. n. 600 del 1973, prevede, oggi, che “alle stesse condizioni sono altresì posti come RICAVI a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni per importi superiori a euro 1.000 giornalieri e, comunque, a euro 5.000 mensili”.
A seguito della sentenza della Corte Costituzionale 6 ottobre 2014, n. 228 e dell’entrata in vigore della legge 1° dicembre 2016, n. 225, di conversione del D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, è pacifico che detta seconda presunzione può essere applicata nei confronti dei soli titolari di reddito d’impresa, previo superamento delle franchigie sopra indicate.
Per poter vincere detta presunzione, l’esercente attività d’impresa può comunicare agli organi preposti all’accertamento delle imposte sui redditi le generalità del soggetto beneficiario delle somme prelevate.
Non è richiesto che detta comunicazione sia comprovata da documentazione di supporto cosicché i necessari accertamenti finalizzati a riscontrare l’effettiva destinazione delle somme prelevate, nonché le ragioni che ne hanno giustificato la corresponsione spettano ai funzionari dell’Amministrazione finanziaria.
Occorre, infine, rilevare, su un piano più generale, come la stessa Agenzia delle Entrate ha, a più riprese (cfr. Circolari n. 32/E del 2006, n. 25/E de 2014 e 16/E del 2016) richiamato l’attenzione degli Uffici sulla necessità di valutare, in modo attento e preciso, la coerenza del risultato ottenuto, sulla scorta delle presunzioni bancarie, con il profilo del contribuente e con l’attività dallo stesso svolta, secondo logiche di proporzione e ragionevolezza, avulse da acritici automatismi.
In questo senso, è auspicabile che l’Amministrazione finanziaria, prima di procedere alle contestazioni, attivi un costruttivo confronto dialettico con il contribuente sottoposto ad indagine, teso a riattivare pienamente il diritto di difesa, inevitabilmente alterato dalle esaminate presunzioni.
wordpress theme by initheme.com