Nel diritto tributario interno è oramai consolidato il principio secondo il quale i vizi di legittimità o, comunque, le irregolarità concernenti gli atti presupposti e gli atti prodromici dell’attività di verifica rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice tributario (ancorché non espressamente menzionati nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992).
Tuttavia, detti atti non possono essere impugnati autonomamente, ma solo unitamente all’atto impositivo che ne consegue (a conclusione del procedimento amministrativo dell’accertamento), potendone determinare la caducazione in applicazione del principio dell’invalidità derivata, per cui l’illegittimità di un atto prodromico o presupposto riverbera i propri effetti negativi sull’atto tributario finale (quello rientrante nell’elenco di cui al citato art. 19).
Ma cosa succede quando l’attività di verifica o, comunque, il procedimento di accertamento si conclude con un nulla di fatto, ovvero, pur essendo emesso un atto impositivo, lo stesso non venga impugnato dinanzi alle competenti commissioni tributarie?
Con la sentenza n. 8587/16, depositata il 2 maggio scorso, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno fornito una risposta precisa a tale domanda, ponendo fine ad un’annosa e complessa controversia che trae origine da una verifica iniziata nel 2007 nei confronti di uno studio legale associato di Milano, che aveva eccepito il segreto professionale sui fascicoli della clientela, durante la fase dell’accesso eseguito dalla Guardia di Finanza. La citata sentenza offre l’occasione per ripercorrere la vicenda, fissando i principi via via coniati nelle vari sedi giudiziarie adite, con un’opportuna premessa introduttiva nella quale delineare in sintesi il quadro normativo sul segreto professionale.
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