Nelle cessioni d’immobili o di aziende l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro o ipotecaria e catastale. Ciò si deve all’articolo 5, comma 3, della Legge n. 147 del 2015, norma che, essendo d’interpretazione autentica, ha effetto retroattivo e quindi vale anche per le controversie instaurate prima della sua entrata in vigore.
È quanto è tornata a ripetere la Cassazione con la sentenza n. 11543/2016.
La controversia riguarda la cessione, da parte di una Sas, delle attività di bar e di rivendita di generi di monopolio, oltre che dell’immobile di esercizio.
L’Agenzia delle Entrate, sulla base delle plusvalenze derivanti dal nuovo valore attribuito alla cessione in ragione della pretesa definita ai fini dell’imposta di registro, ha contestato un maggior reddito alla società e ai suoi soci “per trasparenza”. Tale rettifica operata dall’Amministrazione finanziaria è stata però annullata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia facendo leva sul fatto che la cessione dell’attività si era resa necessaria a causa dei dissidi insorti tra i soci e della malattia di uno di essi.
Secondo i giudici dell’appello, i contribuenti hanno fornito elementi sufficienti per superare la presunzione di corrispondenza del prezzo di vendita dell’azienda al valore venale di comune commercio e quindi, “in mancanza di altri elementi prospettati dall’ufficio”, hanno dato rilievo al corrispettivo dichiarato, anche perché nel caso di specie il suo scostamento dal valore stimato dall’ufficio, pari al 15%, “non evidenzia un comportamento palesemente antieconomico”.
Approdata in Cassazione, la controversia si è chiusa definitivamente a sfavore del fisco.
La ricorrente Agenzia, in particolare, ha lamentato un vizio motivazionale perché la sentenza impugnata, nell’argomentare l’accoglimento del gravame, avrebbe mostrato di prescindere dall’efficacia presuntiva che si connette alla definitività dell’accertamento in materia di imposta registro, “che avrebbe dovuto escludere ogni ulteriore onere probatorio in capo all’Ufficio”.
Ebbene, la Cassazione non è stata dello stesso avviso dell’amministrazione, in quanto deve ritenersi superato il principio secondo cui, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria è legittimata a procedere, in via induttiva, all’accertamento del reddito da plusvalenza patrimoniale relativa al valore di avviamento, realizzata a seguito di cessione di azienda, sulla base dell’accertamento di valore effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro, sicché è onere probatorio del contribuente superare (anche con ricorso a elementi indiziari) la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato con il valore di mercato accertato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro, dimostrando di avere in concreto venduto a un prezzo inferiore (Cass. Sez. 5, n. 21055 del 2005, n. 19548/2005, n. 5070/2011).
Il suddetto principio – come già chiarito da Cass. n. 6135/2016, n. 7448/2016 e n. 11543/2016 – non è più attuale a causa dello ius superveniens di cui all’art. 5, comma 3, del D.Lgs. n. 147/15 secondo cui: “Gli articoli 58, 68, 85 e 86 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e gli articoli 5, 5 bis, 6 e 7 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende nonché per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347″.
L’art. 5 in discorso si pone espressamente quale norma d’interpretazione autentica, sicché è applicabile retroattivamente. Il carattere retroattivo costituisce, infatti, elemento connaturale alle leggi interpretative (C. Cost. n. 246 del 1992; Cass. Sez. 5 7448/2016 già cit.).
Ne deriva che nelle cessioni di immobili e di aziende non si può più contestare l’esistenza di un maggior corrispettivo solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro, neppure per le controversie già iniziate sotto il vigore della disciplina previgente. Il che, nel caso di specie, ha minato in radice la fondatezza del ricorso erariale. Infatti la Suprema Corte ha escluso il vizio di motivazione della decisione impugnata, in quanto la CTR ha correttamente sostenuto che la tesi erariale doveva essere supportata da “altri” elementi di prova, e ciò a fronte della concludenza probatoria delle circostanze impeditive allegate dai contribuenti (i dissidi tra i soci e la grave patologia di uno di essi). A riguardo, la Suprema Corte ricorda che è compito solo del giudice di merito selezionare il materiale probatorio e scegliere tra le prove raccolte la fonte del proprio convincimento.
In conclusione, il ricorso dell’Agenzia delle Entrate è stato respinto, con relativa condanna al pagamento delle spese del giudizio.
wordpress theme by initheme.com